04 settembre 2006
Compagni contrordine: Prodi si riscopre “europeista adulto”
Diverte ammirare oggi l’asprezza di Romano Prodi nei confronti di Bruxelles. Diverte perché dell’intangibilità di quell’istituzione il presidente del Consiglio è sempre stato il più convinto profeta in Italia. Ogni volta che il governo Berlusconi discuteva – non litigava – con la Commissione, il professore si lanciava nei suoi saccenti richiami al rispetto degli impegni di Maastricht. Solo fino a qualche mese fa per il pensiero unionista era vietato obiettare qualsiasi cosa ai dettami di Bruxelles. Se lo facevi eri antieuropeista, come se l’europeismo comprendesse l’infallibilità della Commissione, come se le direttive dell’Ue scaturissero da una sapienza infusa dall’Alto, impossibile da mettere in discussione.
Oggi il professore, con i vari Ferrero e Cento alle calcagna, riscopre la capacità di criticare Bruxelles. Ma diventato finalmente “europeista adulto”, piuttosto che irritarsi per le bacchettate di Almunia e Trichet, Prodi dovrebbe argomentare in modo serio le accuse di parzialità dell’arbitro Europa.
La linea morbida attuata qualche anno fa a favore di Francia e Germania non era dettata infatti da favoritismi ingiustificati, tantomeno era diretta - come Franco Bruni fantasticava venerdì sulla Stampa - a coprire future inadempienze dell’Italia. Il superamento della rigidità di Maastricht fu in realtà uno dei risultati più brillanti della politica estera di Silvio Berlusconi che capì quanto certi vincoli stavano bloccando il rilancio dell’Europa, impossibile da attuare senza un allentamento dei vincoli di spesa e quindi di investimento dei due principali motori propulsori, l’industria francese e tedesca appunto. O l’economista Bruni conosce qualche alchimia con la quale far ripartire un’economia senza investimenti? Il maggior rigore verso il deficit italiano del resto è datato e non deriva certo da simpatie o antipatie verso l’inquilino di Palazzo Chigi di turno ma è figlio dell’enormità del nostro deficit di gran lunga superiore a quello di francese e tedeschi.
Ma c’è una verità ancora più scomoda che Prodi e i suoi non possono ammettere: la bontà della politica economica portata avanti dal centrodestra negli ultimi anni.
Lo scorso marzo, in occasione della ricognizione trimestrale sul patto di stabilità, lo stesso Almunia da un lato avviava la procedura d’infrazione per deficit eccessivo nei confronti del governo di Berlino che, per far fronte alla crisi occupazionale (10 milioni di disoccupati tedeschi!), era stato costretto a varare una legge finanziaria troppo assistenzialista. Dall’altro il commissario agli Affari economici manifestava invece apprezzamento per le riforme strutturali che l’ultima finanziaria di Giulio Tremonti aveva introdotto e che, secondo Bruxelles, ci consentirebbero di rispettare il Patto nel 2009. Il maggior gettito fiscale, di cui tanto si discute e che permetterebbe una riduzione della prossima manovra di cinque miliardi, sta lì a dimostrare in modo incontrovertibile quanto quel giudizio positivo fosse ben ponderato. Anche prima dell’estate, col nuovo governo insediato, mentre Tps già strepitava paventando uno stato disastroso dei conti pubblici, paragonabile a quello del ’92, Almunia continuava a ribadire che per l’Italia non era necessaria una manovra bis ma sarebbe stato sufficiente applicare le misure di contenimento strutturali previste dalla Tremonti. Insomma l’isterismo contabile non è a Bruxelles semmai nel governo Prodi. Andate a rileggere i severi editoriali di Tps sul risanamento del nostro deficit. Il nostro ministro dell’Economia sta finalmente imparando a sue spese (leggi Giavazzi) quanto sia facile pontificare da analista e quanto sia molto più complicato decidere da politico. I dissidi che emergono in questo giorni all’interno della maggioranza sull’elaborazione della finanziaria sono figli d’altronde di quella stessa opposizione contraddittoria e insensata che il centrosinistra conduceva fino a qualche mese fa. Da un lato i soloni dell’economia lamentavano il ritardo del Paese nel risanamento dei conti pubblici, dall’altro i radicalsinistri criticavano ogni misura di contenimento della spesa. Tutti poi disconoscevano qualsiasi effetto positivo alla politica economica del governo andando così già allora contro quanto Istat e Bruxelles certificavano. Sull’onda di questa strategia d’opposizione il centrosinistra sposò già allora la tattica del NO. No al tetto sull’aumento della spesa, no al patto di stabilità interno, no alla riforma previdenziale, no a quella del lavoro.Eppure oggi la sinistra moderata riscopre che in fondo non è poi così urgente cambiare la legge Biagi, che la riforma del lavoro andrebbe resa ancora più rigorosa, che le regioni con deficit nella sanità dovranno rientrare con l’addizionale Irpef prevista da Tremonti e finanche lo stesso ticket sanitario, di storaciana memoria, non rappresenta più un bestemmia sociale. Ma come spiegare tutto questo alla sinistra radicale, alla politica del No? In realtà la suscettibilità del centrosinistra per i richiami di Bce e Commissione non è assolutamente giustificata. Almunia, come un buon vigile, continua su una posizione lineare e coerente: l’Italia è sulla via del risanamento ma occorre proseguire su quella strada. Occorre cioè, per quanto costi ammetterlo, proseguire sulla via intrapresa dal precedente governo.
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