09 giugno 2006

Lettera aperta a Romano il temporeggiatore

Caro presidente del consiglio pur non avendo il carisma di un Beppe Grillo vorrei rivolgerle qualche timido consiglio per migliorare il suo rapporto con tutti gli italiani. Vede da buon curato di manzoniana memoria lei ha deciso di percorrere da tempo la via del non dire, credendo in buona fede che questa strategia potesse evitarle di assumere posizioni sulle quali la sua coalizione è divisa, sì da non dispiacere a nessuno. In questo modo lei è riuscito quasi a perdere l’elezioni non capendo che, a differenza dei partiti, molte persone preferiscono un leader che magari non condivide ognuno dei loro principi ad un leader che non scegliendo leader non è. Il dramma delle scelta come Soren Kierkegaard insegnava appartiene all’uomo ma alla fine lo stesso tentennare è una scelta, è spesso la peggiore. Ora che è ritornato a Palazzo Chigi come vede questo perseverare nel silenzio è fonte più che mai di equivoci, d’incertezze, ed ahimè forse anche di qualche rischio. Prima di bacchettare la loquacità dei suoi ministri dovrebbe cominciare lei stesso a dirci con chiarezza quali sono le sue scelte concrete. Ora che siede sulla poltrona di capo di governo non può più rifugiarsi dietro a programmi infiniti senza indicazioni programmatiche precise. Lei che è uomo di economia dovrebbe sapere quanto l’incertezza sia deleteria per i mercati eppure rinvia le scelte su tutti i punti più critici della politica. Anche quando si lascia andare ai confronti con la stampa estera, illudendosi di avere interlocutori meno ostici, tutto quel che sa fare è spararle ancora più grosse dei suoi ministri arrivando a definire folkloristici i partiti della sua sinistra di governo e schiavista il suo predecessore che avrebbe così represso le libertà individuali degli italiani per cinque anni. Eppure tutto questo nasconde malamente il suo voler continuare a rinviare le sue scelte, forse semplicemente perché lei non è un uomo che decide ma che si accomoda sulla scelta più opportuna verso la quale i suoi referenti parlamentari e non la spingono. Perché la sua poltrona lei l’ha conquistata non coagulando gli obiettivi comuni di questa informe coalizione ma rappresentando il nulla in cui nessuno si sente discriminato e in cui ogni istanza può essere accolta. Così sull’Iraq e su Israele, sulla Legge Biagi e sul fisco, come sulla Tav lei semplicemente glissa come se il suo parere fosse quello dell’edicolante di piazza Colonna amplificando lei stesso con questo perenne sorvolare le esternazioni della sua squadra di governo. Insomma temporeggiare non paga si fidi. Quinto Fabio Massimo il cunctator riuscì a sfiancare Annibale nella seconda guerra punica con la guerriglia, lei al massimo rischia di fracassare gli attributi di tutti gli italiani a cominciare dai suoi elettori.

08 giugno 2006

Arriva De Gregorio e la maggioranza vacilla

Mercoledì in Senato è andato in scena il primo atto di quella commedia che il centrosinistra si prepara ad offrirci per i prossimi mesi. Alla presidenza della commissione Difesa di Palazzo Madama l’Unione pur avendo lo stesso numero di componenti della Cdl, 12 a 12, sfruttando la regola dell’anzianità puntava sulla nomina della senatrice di Rifondazione Lidia Menapace, 82 primavere di pacifismo mistico e sfrenato sulle spalle. A spuntarla invece come si sa è stato il senatore dell’Italia dei Valori, Sergio De Gregorio che a sorpresa ha avuto il sostegno della Cdl raccogliendo così 13 voti contro gli 11 a favore della Menapace. Il risultato a sorpresa, è bene dirlo subito, è stato innanzitutto frutto dell’ingenuo antimilitarismo della Menapace che fino a mercoledì mattina si è lanciata in tutta una serie di dichiarazioni contro la Nato e le basi in Italia, contro Israele, contro il ricorso alla guerra per qualsiasi ragione, contro finanche le frecce tricolori. Se quindi De Gregorio è stato un abile manovratore di palazzo, è altrettanto vero che la sua argomentazione appare impeccabile: la Menapace era palesemente inadatta a quell’incarico. Ed infatti, al di là delle disapprovazioni d’ufficio provenienti dall’Unione, più che altro in ossequio al presidente della Camera, sono molti nella stessa maggioranza quelli che hanno tirato un sospiro di sollievo alla notizia della combine De Gregorio-Cdl. Lo stesso Riformista ieri in prima pagina esprimeva soddisfazione per la mancata designazione della senatrice di Rifondazione considerata pericolosamente distante dall’approccio più cauto di Massimo D’Alema e Arturo Parisi. Insomma l’episodio di mercoledì non sembra essere dovuto esattamente ad una scheggia impazzita. Certo De Gregorio è un border line - non sono lontani i suoi trascorsi in Forza Italia – ma quanto accaduto è soprattutto figlio di quella divisione profonda che attraversa l’attuale maggioranza su un tema fondamentale come la politica estera. L’asse governativo che va dalla segreteria diessina, Fassino-D’Alema a quella centrista Prodi-Rutelli sa che la sinistra radicale va’ tenuta lontana da certe scelte anche a costo di dare qualche soddisfazione al centrodestra. Ma sarà sempre così facile?
Intanto sul disobbediente De Gregorio sono piovute ieri tutte le accuse più infamanti. Sull’onda del più bieco moralismo il senatore napoletano è oggi additato come un trasformista della politica con frequentazioni poco rassicuranti, da Craxi a Tremaglia, fino a Forza Italia e poi alla Dc di Rotondi. È sempre la solita sinistra, quella che se sbagli non esisti più o più facilmente diventi un nemico da abbattere tirando fuori tutte le vecchie storie che possono infangarti. Il solito doppiopesismo che chiude gli occhi davanti al passato di sangue di Sergio D’Elia e che invece non perde tempo a sputtanare chi sgarra sulla disciplina di coalizione. Da De Gregorio oggi qualcuno a sinistra pretende addirittura le dimissioni perché la libertà del parlamentare è sacra solo quando è funzionale alla causa del partito. Eppure il senatore ribelle è ancora nel centrosinistra e non certo per timore di questi sussulti giacobini. Se davvero dovesse compiere il salto le dimissioni infatti potrebbe essere costretto a darle qualcun altro, visto che il risicato margine della maggioranza al Senato, al netto di senatori a vita e presidente, è appeso a un solo voto. E chi grida all’immoralità il giorno del referendum ricordi che, la riforma costituzionale tanto vituperata, introduce il mandato imperativo per blindare la maggioranza uscita dalle urne anche dai De Gregorio.