12 maggio 2006

PIL in crescita, è colpa del governo Berlusconi

La ripresa economica dell’Italia è in arrivo. I dati Istat diffusi ieri confermano l’inversione di tendenza della nostra produzione che nel primo trimestre del 2006 fa registrare un + 0.6% rispetto al precedente trimestre e addirittura + 1.5% rispetto allo stesso periodo del 2005. Il tasso di crescita è in linea con la media europea e addirittura superiore a quella tedesca ferma allo 0,4%. I numeri sono inequivocabili tanto che anche il segretario della Cgil Guglielmo Epifani ne ha riconosciuto il peso, considerandolo ovviamente un evento del tutto congiunturale dal quale il prossimo governo dovrà partire. Insomma se le cose non vanno bene la colpa era del centrodestra, se le cose ora vanno meglio ciò è imputabile a cause esterne, quando il governo Prodi s’insedierà ovviamente il merito sarà suo. Eppure quando Silvio Berlusconi preannunciava in campagna elettorale che l’Italia stava per uscire dalla crisi molti lo accusavano di vendere un fumo nel quale nessuno più credeva. A ben guardare l’andamento della nostra economia è perfettamente in linea con gli obiettivi che il governo si era posto. La strategia è stata chiara. Sacrificare la riduzione del deficit considerando prioritario l’avvio di opere infrastrutturali e praticare una politica fiscale che favorisse e non frenasse gli investimenti. Il risultato più immediato è stato un aumento dell’occupazione, dovuto anche alla legalizzazione del sommerso, e una dose consistente d’innovazione nella pubblica amministrazione e nelle infrastrutture. Insomma il governo Berlusconi ha investito. Tirare la cinghia avrebbe significato soffocare ancora di più l’iniziativa imprenditoriale ma nel lungo periodo non avrebbe innescato alcuna svolta nella crescita. Allora è meglio ridurre il proprio deficit subito o gettare le basi del rilancio per una svolta che consenta domani di riequilibrare anche il proprio bilancio? Questo poi senza contare che in tutta Europa ormai si è superata, anche grazie alla politica estera del governo di centrodestra, l’idea che il rilancio della competitività passi in via prioritaria dal controllo della spesa. Il commissario agli Affari economici Joaquín Almunia in questo senso continua ad essere esplicito. Anche di fronte alle previsioni di una crescita italiana all’1,3% per il 2006, contro una media europea attesa al 2,1%, Almunia continua a considerare importanti le misure della ultima finanziaria di Giulio Tremonti – con tagli strutturali per 20 Mld di euro – e per il momento non ha chiesto all’Italia manovre aggiuntive. Insomma se Bruxelles non s’inquieta per un deficit che resta sostanzialmente sotto controllo, non si capisce perché lo dovremmo fare noi. La verità è che le statistiche vanno lette in modo accurato. I dati più indicativi per valutare l’efficacia di un’azione di governo sono proprio quelli riguardanti il trend. Dire che il debito italiano è ancora il più alto in Europa non spiega nulla della politica economica perseguita, giusta o sbagliata che sia. Il numero degli ingegneri italiani per esempio è ancora lontano dalla media tedesca ma l’Italia in questa classifica è al secondo posto per tasso di crescita. Lo stesso sta avvenendo in altre aeree strategiche: la banda larga, gli incentivi alle imprese che innovano, la ricerca scientifica. Il dato assoluto alla fine conta di più ma il dato relativo aiuta a capire se la strada imboccata è quella giusta.

10 maggio 2006

Se avesse coraggio la Rnp lascerebbe la maggioranza

Davanti gli ultimi show pannelliani a Montecitorio il Megafono registra la parabola discendente del leader radicale che appare ormai abbandonato dai suoi stessi epigoni parlamentari. Al di là di analisi politiche più profonde mi sembra tuttavia che l’uomo Pannella non sia in grado di rinunciare alle sue manifestazioni da saltimbanco, davanti alle quali si pretenderebbe che noi tutti, sebbene da posizioni diverse, c’inchinassimo in segno di rispetto. Eppure non posso non chiedermi una cosa. Se davvero la Rnp si sente gravemente defraudata nella propria rappresentanza parlamentare perché non lascia l’Unione? La quaestio infatti mi sembra sia sostanzialmente contro gli alleati del centrosinistra. Nel centrodestra i radicali si sentivano ostracizzati e non avevano tutti i torti. Dall’altra parte però sembra addirittura che i loro nuovi alleati gli freghino i seggi. Come dire dalla padella alla brace ma forse le poltrone di governo faranno sentir meno a Capezzone&Co le scottature.

09 maggio 2006

Oltre il Colle la vera sfida resta la Costituzione

Dall’elezione del capo dello Stato che in questi giorni assorbe tutta l’attenzione dei media non arriverà nessuna sorpresa. La scelta di Giorgio Napolitano – a questo punto la più probabile – o chi per lui, influirà ben poco sulle prossime vicende politiche. Per carità il Quirinale si è spesso rilevato la chiave di volta dei giochi negli ultimi anni ma questo è accaduto soprattutto quando al governo c’era il centrodestra. Ora che il colore del Colle sarà uniforme a quello dell’esecutivo vedremo diradarsi le tentazioni presidenzialiste dei vari Sartori e Scalfaro. Al Polo in questo momento converrebbe paradossalmente tirarsi fuori dalla contesa, lasciare che l’Unione mostri le sue crepe e non evidenziarne di proprie che in questo momento non servono a nessuno. Non condivido tutti gli altolà della Lega ma cui prodest spaccarsi su una battaglia che a questo punto vale poco e che comunque vada sarà una battaglia persa? A mio avviso il centrodestra avrebbe fatto meglio a votare un unico candidato in modo compatto fin dal primo scrutinio. Ciò da un lato avrebbe contribuito a mettere in risalto le sconfessate lesioni che attraversano la maggioranza, dall’altro avrebbe evitato al Polo scelte che rischiano di inimicarsi il futuro presidente o il proprio elettorato.
Ma l’errore più grande che il centrodestra continua a perpretare è il silenzio sulla politica dei contenuti. Eppure anche in questi giorni di Quirinale-mania Berlusconi&Co. potrebbero benissimo spingere nella caldaia mediatica la spinosa questione della riforma costituzionale offrendo così il proprio tavolo di confronto agli avversari ma soprattutto dando il via indirettamente alla campagna d’informazione sul referendum. Sulla riforma costituzionale il Polo sta purtroppo commettendo ancora una volta lo stesso errore che ci sono costate le politiche del 9 aprile: non credere ad una possibile vittoria e cominciare a farlo solo quando è troppo tardi. La carenza della strategia di comunicazione del centrodestra è in effetti spaventosa. Da un lato non ci si lamenta mai abbastanza del predominio della stampa avversa, dall’altro non si fa nulla per alimentare un circuito virtuoso di informazione politica costruttiva. Non un seminario, non una conferenza stampa, non un’inchiesta su alcuno dei giornali che pure sono orientati verso al Casa delle libertà. Il rischio è grosso. La sconfitta vittoriosa del 9 aprile per dare i suoi frutti positivi va capitalizzata immediatamente con un’azione mirata ispirata innanzitutto ad un coinvolgimento degli elettori sui propri obiettivi. Se così non sarà bisognerà ancora una volta battersi il petto ma sapendo che continuando su questa strada sarà sempre più difficile riprendere il timone del Paese.