29 agosto 2005
Berlusconiadi/3: le radici del Polo nella fine della politica ideologica
Vincere per proseguire sulla strada del rinnovamento. Dovrebbe essere uno slogan cardine della campagna elettorale del centrodestra per la partita delle prossime politiche. Bisogna convincersi del cambiamento in atto guardando come la nostra società, come il rapporto tra Stato e cittadino da più di un decennio si stia trasformando.
L’alleanza di centrodestra non nacque nelle segreterie di partiti, che allora a stento esistevano, ma nacque come un bisogno naturale del Paese, di quella parte del Paese, stanca sì della partitocrazia e della lottizzazione della cosa pubblica, ma stanca soprattutto di uno stato inefficiente e dei Robespierre illusi di cambiare il sistema tagliando quelle quattro teste imbalsamate che ormai più nulla contavano.
Alla radice della rivoluzione del sistema politico italiano ci fu una overdose di cattiva amministrazione che negli ’80 produsse uno scollamento profondo tra attività di governo e legittime aspettative dei governati. Il sistema “scoppiò”, si è detto, la distanza tra la mentalità dei vertici dello stato e la società civile era infatti diventata insostenibile. Quella che ne seguì fu una vera rivoluzione, all’italiana se vogliamo, ma sempre una rivoluzione. Il fallimento del comunismo sovietico con la caduta del muro di Berlino, la maggiore “disponibilità” tutto a un tratto da parte di alcuni magistrati a perseguire gli illeciti della politica, furono solo molle episodiche che diedero la spinta finale al crollo del sistema. La molla della “persecuzione processuale” del resto non fu sicuramente la migliore perché impedì una valutazione appropriata della capacità governativa di quell’establishment rendendo difficile comprendere la portata del cambiamento in atto. Non vede il cambiamento infatti chi cerca limpidezza estrema nelle scelte della politica che non resterà mai del tutto indenne da interessi poco nobili. Non vede il cambiamento chi si ostina a vestire dei panni della moderazione e dell’equilibrio i tentennamenti e le fragilità dei governi della prima repubblica.
Tangentopoli come detto fu solo una delle spinte al cambiamento e forse neppure la più determinante. A decidere il salto fu il crollo delle ideologie, la loro incapacità a coinvolgere ancora l’elettorato, il loro senso ormai perso dietro il tramonto di un bipolarismo mondiale che andava spegnendosi. I due maggiori partiti, la Dc e il Pci, epigoni irrequieti di quelle ideologie che si erano scontrate sul palcoscenico planetario, cominciarono a perdere colpi ben prima di tangentopoli. Se il Pci faticava a star dietro la maggiore duttilità del riformismo socialista, la Dc, dall’altra parte, non poteva più velare le inettitudini di governo dietro la missione di baluardo dinanzi al “pericolo rosso”. Chi oggi, in modo così commovente, rimpiange i tempi delle grandi ideologie, delle sezioni piene, dei “partiti o di qua o di là”, dovrebbe riflettere sul superamento storico di quella fase, sull’incapacità di quel sistema di adattarsi alle nuove istanze di una società salva dal comunismo ma mangiata da cattiva amministrazione e assenza di stato. Se quella classe politica si spappolò sotto i colpi “mirati” della scure giustizialista, ciò avvenne perché non aveva più alcun carisma, non aveva più alcuna fierezza dietro la quale difendere la propria dignità. E ciò è tanto vero che gli stessi “eredi divisi” della Dc hanno bisogno di pescare perlopiù nel lontano dopoguerra le personalità politiche di riferimento o al massimo tra i caduti nella lotta al terrorismo.
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