22 giugno 2006

Sì: un calcio alla partitocrazia

La riforma costituzionale racchiude in sé lo scuotimento profondo che l'ingresso sulla scena politica di Silvio Berlusconi e la creazione di una forte compagine alternativa al centrosinistra hanno significato per il nostro Paese, portando alla naturale contrapposizione bipolare. Che cos'è infatti il bipolarismo se non la forma garante per eccellenza della vera democrazia? E non è forse vero che fino al 1994 l'Italia è stata sostanzialmente soggetta ad una forma perversa di consociativismo cristallizzato, in cui ad una contrapposizione apparente tra Dc e Pci faceva da contraltare una spartizione minuziosa delle leve del potere? Chi nega ciò crede realmente che lo scoppio del sistema partitocratrico accompagnò solo casualmente il crollo dell'Urss? Analizzando il percorso dell'Italia repubblicana, appare chiaro come le limitate prerogative che la nostra Carta costituzionale riconosce al presidente del Consiglio fossero funzionali proprio a quel compromesso tra i due maggiori partiti. I meccanismi che privilegiano il peso del Parlamento sull'Esecutivo ed aggirano il rapporto diretto tra governo ed elettori sono quindi figli di quella stagione in cui la divisione del mondo in due blocchi imponeva all'Italia una sorta di «spartizione coreana», non territoriale ma politica. Oggi quelle stesse caratteristiche costituzionali sono del tutto obsolete e rispondono alla sola esigenza, da parte di alcuni settori della politica e dell'economia del Paese, di mantenere sempre e comunque i propri spazi di potere indipendentemente dalla testa dell'Esecutivo.
La chiave di tutto lo scontro in atto sul referendum del 25 giugno è quindi il premierato forte. Per il centrosinistra, che si nutre di un voto sostanzialmente ideologico e acritico ma anche rigido in termini di percentuali, è preoccupante una competizione che, privilegiando il rapporto diretto tra cittadini e primo ministro, rischia di soffocare quei poteri intermedi che sono i suoi veri referenti e che si avvantaggiano dell'assenza di un governo forte e autorevole.
Il Cavaliere, con il suo ingresso in campo nel 1994, sparigliò le carte proprio perché introdusse nella politica italiana il rapporto elettorato-uomo politico, in alternativa al rapporto elettorato-partito, aprendo così il rischio, per loro, di una «deriva presidenzialista». Nacque così dal 1994 la leggenda del berlusconismo populista e plebiscitario che portò al ribaltamento della tesi, diffusa naturalmente dallo scoppio di Tangentopoli, per cui la politica doveva uscire dalle segreterie dei partiti per trasferirsi concretamente nelle sedi istituzionali. Improvvisamente il sistema dei partiti appena demolito diventò un sistema da difendere. Oscar Luigi Scalfaro arrivò a definire i partiti i garanti della democrazia mentre il «Cavaliere nero», con il suo partito-azienda, finì per rappresentare nell'ideologia sinistra il simbolo della commistione tra politica e affari. Ancora oggi lo scontro è tutto qui.
Ad un governo in cui il premier era il leader indiscusso della coalizione, per volere di tutti gli elettori del centrodestra, prima ancora che dei partiti della Cdl, è succeduto un governo in cui il premier è l'uomo del compromesso in un'alleanza composita, il classico uomo d'apparato che, non rappresentando nessuno, rappresenta tutti ma che, proprio per questo, risulta completamente privo di autorevolezza all'interno della sua maggioranza. Le primarie più grottesche che mai una democrazia abbia visto dimostrano inconfutabilmente questa tesi. E la stessa tesi è confermata dalla confusione di questi giorni, con un presidente del Consiglio costretto a rincorrere le dichiarazioni autonome dei suoi ministri, che non prende decisioni per non scontentare nessuno, che detiene il potere ma non governa.
Il governo Prodi è insomma la riprova della scarsa funzionalità dei meccanismi parlamentari e quindi partitocratrici della Prima Repubblica, con un aggravante. Allora tra i partiti di governo e il Pci vigeva un tacito accordo sulle distinte aeree di potere che favoriva una forma di stabilità, perlomeno d'interesse. Nell'attuale maggioranza invece la fame di poltrone sta bloccando ogni scelta. Paradossalmente un'applicazione hic et nunc della riforma costituzionale varata dal centrodestra risolverebbe gran parte dei problemi che fanno tremare Romano Prodi. Il mandato imperativo blinderebbe la maggioranza al Senato, mettendola al riparo da possibili transumanze; i ministri sarebbero alle dirette dipendenze del capo di governo, che potrebbe sostituirli facilmente, e non più dei partiti; le sempre incessanti voci su possibili trabocchetti stile 1998 sarebbero escluse dal previsto ricorso alle urne in caso di caduta dell'esecutivo in carica. Insomma non c'è una parte politica in buona fede che governando non si augurerebbe di avere le prerogative che la riforma costituzionale stabilisce. Perché allora tutto questo ostracismo verso la riforma della Cdl, che in fondo introduce molti dei meccanismi di governo utilizzati nelle più grandi democrazie del mondo? Il motivo può essere uno solo: quello di assicurare una responsabilità di potere diffusa, quello di perpetrare il consociativismo, quello di rispondere del proprio operato non ai cittadini, ma solo è soltanto ai propri referenti di partito e, ahimè, non solo di partito.


Su Ragionpolitica del 17 giugno

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